La musica è (di nuovo) finita.
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ANCORA una volta uno spettro si aggira per l'Europa e il mondo intero. Non è quello del comunismo e nemmeno quello di Marx, evocato da Derrida. È quello della musica. Passata indenne attraverso il postmoderno che, anzi, ne aveva permesso l'elevazione a un rango superiore dal momento che riteneva degna della medesima considerazione la cultura di massa tanto quanto quella elitaria, la musica rock rischia oggi la capitolazione. Il tema potrebbe apparire vecchio e, in effetti, lo è. Se pensiamo che ne parlava il musicista e musicologo Fred Frith già nel 1988 nel saggio Il rock è finito, ci rendiamo conto di quanto il tema sia appassionante e la discussione a riguardo ben lungi dall'essersi esaurita. Frith, infatti, diceva: "Sono ormai convinto che l'epoca del rock sia conclusa. Nata verso il 1956 con Elvis Presley, giunta all'apice verso il 1967 con Sgt. Pepper, morta intorno al 1976 con i Sex Pistols, si è rivelata come una fase transitoria nell'evoluzione della popular music del Ventesimo secolo più che una rivoluzione culturale di massa. Il rock è stato uno degli ultimi tentativi romantici di conservare forme di produzione musicale - l'interprete come artista, l'esibizione come condivisione - rese obsolete dalla tecnologia e dal capitale". La musica ha smentito le previsioni di Frith con la nascita del grunge. Nel 1991 esce infatti Nevermind dei Nirvana, un disco epocale, che porta il cosiddetto "rock alternativo" ai vertici delle classifiche e quindi a un pubblico di massa, come nemmeno il punk era riuscito a fare. Al contrario di quanto scriveva Frith, non soltanto "l'interprete come artista e l'esibizione come condivisione" erano ritornate centrali, ma anche i principi etici e politici a cui il grunge si accompagnava: antiautoritarismo, antimachismo, femminismo (molte le band femminili che nascono in questo periodo, le cosiddette "riot grrrls"). Il suicidio di Kurt Cobain nel 1994 segnò la brusca fine di un sogno: quello dell'underground che riesce a diventare il nuovo mainstream. Il grunge resta però l'ultima controcultura giovanile propriamente detta che si possa identificare e storicizzare in maniera chiara. Il fenomeno attuale degli hipster, infatti, non ha un'identificazione precisa in campo musicale. Non esiste una musica "hipster" se non nel senso che è hipster qualsiasi musica sconosciuta al pubblico di massa: per esempio se parlassimo di artisti hipster su questo giornale, gente come Julia Holter o Oneohtrix Point Never, cesserebbero di essere tali. Con questo arriviamo alla contemporaneità, luogo in cui, inevitabilmente, le cose si fanno più complicate. Chris Anderson, ex direttore della rivista Wired , ribalta quello in cui le aziende hanno per molto tempo creduto: nel 2006 con il saggio The Long Tail: Why the Future of Business is Selling Less of More spiega come in definitiva tutte le nicchie messe insieme costituiscano un mercato più ampio del cosiddetto "mainstream". La musica dunque sembrerebbe non essere mai stata così viva. Eppure forse non è così. Lo dice Simon Reynolds, uno dei critici musicali più influenti nel suo saggio del 2011, Retromania: "L'era pop in cui viviamo è impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. Gruppi che si riformano, reunion tour, album tributo e cofanetti, festival- anniversari ed esecuzioni dal vivo di album classici. E se il pericolo più serio per il futuro della nostra cultura musicale fosse il passato?". E aggiunge: "Potrà sembrare un proclama inutilmente apocalittico ma lo scenario che immagino, più che un cataclisma, è un esaurimento graduale. È così che finisce il pop: non con i bang del colpo di grazia, ma con un cofanetto celebrativo di un artista il cui quarto disco di inutili "alternate version" dei pezzi classici non trovi la forza di infilare nel lettore del cd". Due pericoli quindi si stagliano in maniera netta: un'offerta talmente grande da rendere impossibile per il fruitore orientarsi nel presente della musica e, come diretta conseguenza, un rifugiarsi nel passato, in quei nomi ormai conosciuti che costituiscono una garanzia. Damon Albarn (Blur, Gorillaz) in un'intervista recente a El Pais Semanal ne sottolinea un altro: "La musica non deve perdere la sua umanità. La cultura digitale elimina la differenza: tutto suona uguale e questo è male". Insomma se chiunque, grazie alla tecnologia, può simulare il suono di un'orchestra, non solo in futuro non ci saranno più orchestre ma la maggior parte dei dischi suoneranno simili nella loro perfezione campionata. Ne è convinto anche David Byrne, ex Talking Heads e autore del recente libro Come funziona la musica ( Bompiani): "La perfezione resa possibile da tali tecnologie della registrazione e della composizione può essere gradevole. Ma può anche essere troppo facile conseguire la perfezione metronomica in tal modo, e la perfezione a buon mercato è spesso ovvia, ubiqua e in ultima analisi noiosa". Un altro tema: l'incorporazione degli elementi caratterizzanti dei diversi generi musicali, il famoso "crossover" all'interno di uno stesso disco o addirittura di uno stesso brano. Ancora Reynolds: "Invece di esprimere se stessi gli anni 2000 preferiscono offrire un concentrato di tutti i decenni precedenti: una simultaneità della cronologia pop che abolisce la storia, erodendo l'autocoscienza del presente in quanto epoca dotata di identità e sensibilità proprie". Un tema che si potrebbe sintetizzare in una semplice frase del rapper Fabri Fibra, uno dei pochi artisti capaci di far emergere nelle suo opere il sentire contemporaneo: "Troppo di tutto oggi c'è troppo di tutto, che vita piatta!". Equi veniamo all'ultima parte del problema, la più esiziale. Scrive David Byrne in un articolo sul Guardian intitolato Internet succhierà via tutti i contenuti creativi del mondo : "Con i nuovi servizi di streaming il guadagno è di poche migliaia di dollari a fronte di milioni di ascolti di un brano. Ma il peggio è per gli emergenti: con queste cifre è impossibile sopravvivere". Insomma, oltre al citazionismo esasperato dal passato che di fatto annulla i generi, il sovraffollamento di artisti che rende difficile far emergere gruppi nuovi, l'appiattimento provocato dai campionamenti e dal suono digitale, sarà proprio l'abbondanza dell'offerta, la cosiddetta musica liquida tutta a nostra disposizione con un solo clic e senza più bisogno di possedere alcun supporto fisico, a distruggere, e questa volta per davvero, la musica? E forse non solo la musica perché lo stesso sta avvenendo per la tv, per il cinema e, tra poco, persino per i libri. C'è troppo di tutto? Siamo abituati a pensare alla musica come costante innovazione ma non è detto che sia così. Forse un ciclo è finito e oggi la vera innovazione sta nella tecnologia: di questi anni, in futuro, non ricorderemo tanto le band quanto i marchi che stanno provocando lo tsunami: iTunes, Spotify, Deezer, YouTube, Pandora, Last FM e ovviamente il versante dei social network, dove di musica si discute, Facebook, Twitter e gli altri che sicuramente verranno. Forse, come dice Harper Reed, hacker e al tempo stesso l'uomo che grazie ai big data ha fatto vincere le elezioni a Obama, "oggi la forza innovativa che aveva un tempo il rock ce l'hanno altre cose: la tecnologia è il nuovo rock e gli hacker e i programmatori che stanno scrivendo il mondo di domani le nuove rockstar".
fonte: Repubblica.it
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